| IL PUNTO I contributi firmati non rispecchiano necessariamente l'intero gruppo redazionale Crisi economica e sociale: quale via d’uscita. Merci con più valore aggiunto o un maggiore conflitto di classe?
 di  Cristiano Valente  Nel quotidiano parlare di  economia sembra che l’aumento della produttività e l’aumento del cosiddetto valore  aggiunto delle nostre merci sia la chiave di volta per risalire la china della  disoccupazione e dei limiti economici e sociali che questa lunga crisi economica  ha già pesantemente determinato. Non c’è intervento di dirigenti  confindustriali, del governatore di Bankitalia, di esperti radiotelevisivi, di  manager, di politici, di sindacalisti, che non rimarchi la necessità di  aumentare la produttività del lavoro. Per reggere la competizione con i paesi  emergenti, occorre rilanciare il tasso di crescita del paese. E’ questo il  ritornello, declinato con diverse sfumature, che giornalmente viene ripetuto  come un mantra. La realtà intanto è fotografata con schietta rudezza dalle  massime autorità europee: “la  disoccupazione dell’area dell’euro è aumentata dal 7,6% nel quarto trimestre  del 2007 al 10% nel secondo trimestre del 2010, raggiungendo il livello più  elevato dal terzo trimestre del 1998”.Questo è ciò che si legge nel  resoconto dell’ultimo rapporto della Bce di dicembre 2010.
 Il dato è allarmante perché come  abbiamo già più volte detto ciò significa che in un area, l’Europa occidentale,  fra le più sviluppate economicamente e socialmente del mondo, ci sono oggi oltre  30 milioni di persone che non hanno lavoro e reddito. Metà di tutta la  popolazione dell’Italia. Il triplo della Grecia. Ciò che colpisce maggiormente è  non solo il dato statistico, di per se agghiacciante, ma le indicazioni che,  sempre nel bollettino di Dicembre, la   Bce raccomanda ai vari Stati nazionali :
 “al fine di ridurre la disoccupazione strutturale e il rischio di  erosione del capitale umano associato ai lunghi periodi di disoccupazione” la BCE auspica “ politiche intese a promuovere la moderazione e la flessibilità salariale,  insieme ad altre politiche attive per il mercato del lavoro che rendano più  efficiente l’incontro tra domanda e offerta   e che rafforzino l’attaccamento al mercato del lavoro da parte dei  disoccupati di lungo periodo”.
 Si leggeinoltre: “nei bilanci per il  2011 i governi devono precisare interventi di aggiustamento credibili dei  conti, incentrati sul lato della spesa”.
 Come si evince la via maestra indicata  dalla Bce  per tutti gli Stati membri, è ancora  la riduzione delle spese per il Welfare (salario  differito) e una ulteriore moderazione salariale (salario reale), come se il già decretato blocco degli stipendi per  i pubblici dipendenti in Italia, la riduzione secca in Portogallo, Spagna,  Grecia ed in Irlanda, la riduzione costante della manodopera nei servizi e  nella manifattura nell’intera area europea, Gran Bretagna compresa, non fosse  già abbastanza.
 Strategie  politiche   sindacali che non tenessero di conto di   tale scelta da parte del capitale nella sua inesorabile lotta di classe  alla rovescia (cioè dei ricchi contro i  poveri) rischiano di essere oltre che sbagliate, controproducenti per le  sorti  delle masse produttive e delle  nuove generazioni.
 Ci riferiamo ad una certa vulgata  politica e sindacale, presente purtroppo anche in una certa sinistra antagonista  e classista,  che continua a presentare  la nostra borghesia ed il nostro ceto politico come un ceto ed una classe sostanzialmente  arretrata, composta per lo più di cialtroni, speculatori, affaristi senza alcuna  lungimiranza.
 In una recentissima intervista  rilasciata dal Segretario Confederale CGIL Nicola Nicolosi, coordinatore  nazionale di Lavoro e Società, area programmatica di sinistra e classista in  CGIL si legge: “…l’esecutivo non ha  alcuna idea di come si debba governare il paese…Ma l’arretratezza che  contraddistingue la classe politica mostra il suo degno contraltare in quella  imprenditoriale, che ha scelto la strada della riduzione del costo del lavoro nell’illusione  di rendere appetibili le aziende sul mercato” .(1)
 Il quadro disegnato è quello di  una compagine governativa colpevolmente inetta nella sua azione amministratrice  e di governo ed una classe imprenditoriale nazionale che avrebbe scelto la  strada delle competizione industriale e commerciale riducendo vieppiù i diritti  fondamentali di lavoratori.
 A  meno che non si pensi che anche la struttura Bancaria e finanziaria europea sia  retta da funzionari inetti, cialtroni, a loro volta referenti di una classe capitalista  europea arretrata e poco coraggiosa, occorrerebbe prendere atto,  definitivamente, che tutta la politica economica europea, così come quella  statunitense, in sostanza tutta l’economia capitalista, risponde alla stessa  logica ed alla stessa filosofia, che è quella del massimo profitto ricavabile. Nessuna  lungimiranza o capacità programmatiche socialmente rilevanti muove il mercato e  la competizione. E’ il caos assoluto; l’unico vero e reale obiettivo è il  profitto individuale o delle “combriccole”.
 Il Consiglio direttivo della Bce,  che è il massimo organo decisionale della Banca, è composto dai diversi  Governatori delle Banche Centrali dell’area dell’euro oltre che dai sei membri  del Comitato esecutivo della Bce   nominati a loro volta di comune accordo dai Presidenti e dai Primi Ministri.
 Non ha quindi alcun senso impostare  battaglie ed obiettivi su cui mobilitare le masse lavoratrici e le nuove  generazioni, continuando in questa tragica pantomima nell’indicare la nostra  borghesia o il nostro padronato come dei cialtroni, arretrati e speculatori. Soprattutto  non ha alcun senso nel continuare quella assurda impostazione politica, per  altro di  origine stalinista, fatta  propria dai democratici nostrani, nel voler indicare ai padroni la presunta via  migliore per una maggiore produttività, al fine di  rendere competitivi i nostri prodotti e le  nostre merci, il più delle volte in un sussulto molto pericoloso di  amor di patria e di nazionalismo.
 Ecco come continua il Segretaio  Nazionale CGIL:
 “...la classe imprenditoriale italiana ignora la strada della  competitività sulla qualità del prodotto, che richiede investimenti sulla  qualità del prodotto, che richiede investimenti sul manifatturiero e  l’applicazione di tecnologie che favoriscono processi innovativi avanzati”(2)
 Vediamo allora, seppur brevemente,  cosa significa produttività del lavoro e merci con più valore aggiunto.
 La definizione più appropriata di  produttività del lavoro vede in essa il valore aggiunto prodotto per ora  lavorata. A parità di condizioni tecniche e normative aumentare la produttività  per ottenere maggior valore aggiunto significa lavorare di più  e lavorare più in fretta. Accelerare i movimenti.
 E’ questo il cuore del così detto  metodo Marchionne, l’Amministratore  delegato FIAT, che si vuole  applicare a tutto il gruppo auto: orari più lunghi, meno pause e chiaramente  per ottenere ciò meno diritti, compreso il diritto di sentirsi male o di organizzarsi  sindacalmente e scioperare.
 Diventare una sorta di uomo-macchina,  sempre più plasmato e piegato ai ritmi della tecnologia e una volta logorato e  consumato sostituito come un qualsiasi componente o ingranaggio di una grande  macchina meccanica. Una sorta di Charlot in Tempi Moderni.
 Certo, all’interno di questa  struttura sociale ed economica, autodefinitasi capitalista, o riprendendo il  lessico dei vari protagonisti e cantori della produttività, di una società  economica e sociale di mercato, esiste anche la  via del vantaggio competitivo basato su una profonda  innovazione sia del prodotto sia del processo  di produzione attraverso un circuito virtuoso che lega ricerca e automazione.  Tale via è praticabile in ambiti geografici limitati e in archi di tempo  circoscritti e in linea generale tende a declinare quando lo stesso progresso  tecnologico si allarga alle altre aree geografiche. Peraltro poi, partendo dal  punto di vista degli interessi della classe operaia, tale strada ci porterebbe  direttamente alla necessaria battaglia per eguali condizioni della classe  operaia continentale ed internazionale, altrimenti il permanere e il  consolidarsi del divario tecnologico fra le diverse aree o Stati fra loro in  competizione, inevitabilmente penalizzerebbe un settore di lavoratori a scapito  di altri.
 Non a caso agli albori della  nascita del movimento operaio organizzato l’Internazionalismo fu individuato  come condizione necessaria per una battaglia di affrancamento dal giogo  capitalista.
 Ma tornando alle miserie nostrani  e alla possibilità di un recupero reale dei livelli occupazionali e retributivi  delle masse lavoratrici, in che cosa consisterebbe una credibile via di  sviluppo?.
 Consisterebbe nel fare maggiori  investimenti in capitale produttivo, ricerca e sviluppo, innovazioni  organizzative interne ed esterne, formazione. Reinvestire gli utili realizzati  in nuovi macchinari invece che investirli in facili ed immediati profitti in  borsa o in prodotti finanziari.
 Ma se il padronato ha a sua disposizione  una classe operaia che accetta docilmente i ritmi di Charlot  perché  investire? Fuori di metafora cinematografica.  Se il padronato, così come il Governo ha a disposizione una massa di lavoratori  che accetta di lavorare a ritmi maggiori, di lavorare più a lungo, aumentando  gli orari giornalieri, una classe operaia frantumata e ricattata che accetta di  lavorare il sabato o le notti aumentando in questo modo la produttività ed il  valore aggiunto delle merci, ma perché innovare ed investire?
 Se una nuova generazione di  giovani ha oramai acquisito l’ineluttabilità di una prospettiva lavorativa  precaria e sempre più incerta, per quale motivo si dovrebbe spendere quantità  enormi di soldi per la formazione,   per  la ricerca di base o per la  razionalizzazione dei processi produttivi?
 Il determinismo economico della  guerra commerciale e del mercato, non giustificherebbe nessun investimento. Dove  si hanno lavoratori deboli ci sono merci con minore valore aggiunto.
 Può sembrare un paradosso, ma è il livello della  lotta di classe che impone e obbliga a scelte più impegnative dal punto di  vista degli investimenti e della razionalizzazione dei processi produttivi.
 Aumentare  la produttività o il valore aggiunto, come anche una certa sinistra politica e sindacale  afferma, è impensabile se al contempo non si tengono fermi i diritti, le  condizioni normative e salariali dei lavoratori. Se la borghesia ha a  disposizione una massa lavoratrice debole e ricattata, nessun investimento è necessario  e possibile.
 Solo se la lotta di classe ed il  conflitto obbligheranno i padroni ad investire ed a razionalizzazione i  processi produttivi, l’aumento del valore aggiunto potrà non significare peggiori  condizioni occupazionali, normative e salariali .
 Maggiore è il conflitto di  classe, e maggiori dovranno essere gli investimenti affinché le merci possano  avere più valore aggiunto.
 Ciò significa mantenere fermi i  diritti acquisiti, rivendicare sempre più una quota di quel valore aggiunto a favore  dei produttori e delle nuove generazioni, distogliere quote di denaro dalle  rendite verso i servizi . Significa avere una politica di parte.
 Significa svolgere quella  funzione istituzionale delle strutture sindacali e politiche che si rifanno al  movimento operaio e che dovrebbe essere quella di garantire e sostenere sempre  migliori condizioni lavorative e salariali dei lavoratori.
 Nessuna politica di alleanza  interclassista, di solidarietà o responsabilità nazionale può essere un buon  viatico per le sorti e le condizione delle classi meno abbienti.
  16/12/2010
 Note:1) Lavoro  Società – Periodico di informazione online dell’area programmatica  LavoroSocietà CGIL Intervista  a Nicola  Nicolosi di Paolo Repetto n°  18 del 2/12/2010
 2)  Idem
           
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